Pubblicato da: Rocco | 26 giugno 2007

Credo mi voglia

Pensai che la cosa migliore che potessi fare era cercare di incastrarlo. Avrei chiesto aiuto ad Aldo. Lui sicuramente avrebbe saputo prepararmi tutta la strumentazione necessaria. Ora però dovevo essere lucido. Dovevo ragionare sul da farsi. E soprattutto su come farlo. Accidenti! Quanto possono essere diverse da quello che sembrano le cose!

Non ne avevo la certezza. Ma ormai ero quasi certo che volesse provarci con me: questo pensiero non mi abbandonava. Non mi imressionava che potesse fare una storia del genere… ma con me, no. Non me l’aspettavo. In fondo sono il migliore amico del suo compagno. Sentivo un formicolio prenermi le gambe e le forze venirmi meno. E l’idea di quello che stavo per fare non mi faceva certo stare meglio.

Che ne avrei fatto delle “prove”? Mi consumava immaginarmi di dirgli la verità su Luca e di vedere impotente il suo viso spegnersi. E sapere che il tasto “off” lo stavo pigiando io mi faceva male da pazzi. Non che potesse fare molta differenza, ma mi chiedevo quale fosse il modo migliore per premere quel maledetto tasto. Avrei invitato Franesco a bere un caffè. “Si hai ragione, questi giorni fa proprio caldo. Sarà per questo che Luca si è spogliato prima di provare a succhiarmelo”. No questa è da scartare. Magari la posso buttare sull’ironico-cinematografico… “Hai visto l’ultimo film di Luca? A novanta gradi con Rocco”. Si, ottima idea. Mi darebbero la medaglia “uomo dell’anno che si è distinto per il tatto”. Beh! un modo lo avrei trovato per dirglielo.

Dentro me nutrivo la speranza di aver frainteso tutto e che non era affatto quello che sembrava. Ma era tutto così palese e la scure si abbatteva sempre più profonda sulla testa di Luca. I nostri rapporti non erano mai stati intimi più di tanto. Ci si vedeva, si usciva a cena, cinema, teatro. Ma lui era una propaggine di Francesco. Luca c’era perchè c’era Francesco. A cena, al cinema, al teatro. E per me aveva sempre avuto una consistenza appena palpabile. Francesco era felice del suo rapporto e io di riflesso lo ero per lui. Il mio caro Francesco. Come avrei potuto negargli quel piacere? “Luca sta facendo il concorso… e sai – non senza vergogna – so che conosci il presidente… lui sta studiando… “. Non aggiunse altro. Non era necessario. Tra noi le parole non servivano. Mio caro Francesco, quanto ti sarà costato. A tuo vantaggio personale non l’avresti mai fatto. Il nostro codice d’onore. Queste cose non ci piacciono. Quante volte ne abbiamo parlato. Devi amarlo davvero molto quel ragazzo. Ed ora mi trovo intrappolato in questa situazione surreale. E non so se continuare ad esasperarla fino a indurre Luca a scoprire le sue carte o se non sarebbe meglio annullare la partita e defilarmi senza dargli possibilità di continuare questo assurdo gioco al massacro che, sebbene lui non lo sappia, ora conduco io.

Ho deciso. Lo chiamo. “Si, vorrei parlare con Aldo” – “No, mia moglie non sta affatto bene” – “No, non è malata! non sono sposato”. Perchè questa deve sentirsi la signora in giallo solo perchè fa la segretaria ad un investigatore privato? Evidentemente se Aldo l’ha presa avrà altre doti… ma dubito che sia per il suo acume. “Si, certo, ho capito, deformazione professionale” – (ah! non deficienza innata?) – “Si, grazie”.

“Aldo, ho bisogno di te” – “Si, ok. Al solito posto alle 12”. Mancava un’ora e mezza. Sarei andato sul mare. Lì i miei pensieri si schiariscono. Sarà il vento di tramontana che mi fa quell’effetto. E oggi per fortuna c’è tramontana. Lascerò che mi penetri nella carne, e che fluendo attraverso il corpo mi arrivi fino al cervello.

Mi ostinavo a cercare di capire e ricordare se avessi sbagliato io in qualcosa. Se, piuttosto, non avessi dato io adito a fraintendimenti. Anche involontari. Passai allo scanner tutti quei giorni. E anche quelli precedenti. Ma non ne venivo a capo.
Non avevo il numero di telefono di Luca. Anzi credo che non lo avrei voluto perchè pensavo che non avremmo avuto nulla da dirci. Effettivamente non avevamo niente in comune io e lui. Tranne Francesco. E nemmeno Francesco pensavo avesse nulla in comune con Luca. Ma per pudore non avevo mai avuto il coraggio di confidarglielo. Mi sembrava così preso all’inizio. Poi se ne è innamorato. E a quel punto non aveva più senso dirgli nulla. 
Avevo bisogno del codice meccanografico col quale era stato identificato al concorso. Per poter segnalare al mio amico presidente che la persona tal dei tali è particolarmente meritevole e che sarebbe un peccato per l’amministrazione privarsi della sua competenza. Odiavo fare tutto ciò! E negli ambienti si sapeva che non sono il tipo che concede grazie…
Francesco. Glielo dovevo. In tanti momenti era stato per me più di un padre. Più di un fratello. Più di un amico. Condividevamo gli stessi ideali. Sarà per quello che dopo l’accenno alla richiesta di raccomandazione, non volle più parlarmene direttamente.
Fu Luca a chiamarmi per comunicarmi il codice. “Si, quello di dodici cifre riportato sulla ricevuta di consegna della domanda di ammissione” – “Certo, sono libero in pausa pranzo così hai tutto il tempo per passare da casa a prenderlo” – “No, non mi secca, figurati!” – “Si, giusto un’insalata, per mantenerci leggeri”. 

Quella di una camicia sudata, che ti si è appiccicata addosso. Questa fu la sensazione che provai quando uno di fronte all’altro, divisi dalle nostre insalate, ebbi la percezione che il suo sguardo fosse diverso dal solito. Che mi guardasse. Che osservasse ogni singolo gesto che facevo.
Estrapolato dal contesto in cui ero abituato a vederlo, senza Francesco, mi sembrò meno cagnolino di quello che avevo creduto. E si destreggiava abilmente elargendo sorrisi e facendo battute simpatiche. Pensai che lo avevo sottovalutato. Che forse, se Francesco lo amava… Beh! celava bene le sue doti interiori. Ma finchè non terminammo le nostre insalate, quella sgradevole sensazione, non mi abbandonò. E Luca quel giorno mi sembrò più lento del solito a mangiare.

Quando ci congedammo, mi venne spontaneo scuotere il capo, come a voler far uscire dalla mia testa quella che mi era sembrata un’idea assurda. E come sale, dalla saliera scossa a testa in giù, quel pensiero cadde e rimase lì, su quel tavolo dal quale ci eravamo appena alzati. Così pensai. Ma mi sbagliavo.

Le telefonate si fecero più frequenti e sempre più lunghe. Lo incontravo, per caso, dappertutto. Apprezzamenti, risolini, doppi sensi, allusioni esplicite, abbracci. Stavo per perdere il controllo della situazione. Dovevo porre rimedio.

Aldo arrivò con quasi quaranta minuti di ritardo. Io ero già al mio sesto Martini e gli effetti benefici della tramontana erano stati abbondantemente annullati e sostituiti dalla percezione ovattata delle cose che dà l’alcool. “Si, non deve accorgersi di nulla” – “Lo so che è una bastardata ma preferisco che soffra piuttosto che saperlo con uno che lo sta prendendo in giro” – “Si, non ho il diritto” – “Lo so che questo lo distruggerà e che ne hai viste tante di situazioni analoghe” – “Dai non farmi la predica e pensa a sistemare microfoni e telecamere a casa mia” – “Lo so. Lo so che me ne pentirò”

 

Continua a Credo mi voglia (seconda parte)


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